Massimo Bartolini, Emanuele Becheri, Chiara Camoni, Antonio Catelani, Giulia Cenci, Daniela De Lorenzo, Carlo Guaita, Paolo Meoni, Margherita Moscardini, Andrea Santarlasci, Massimiliano Turco. Mostra a cura di Saretto Cincinelli
In questa occasione, a differenza delle due mostre passate (Il disegno dello scultore e Artisti al Teatro. Disegni per il Maggio Musicale Fiorentino), il percorso espositivo curato da Saretto Cincinelli si discosta parzialmente dalla logica che ha animato le esposizioni allestite in precedenza nelle sale al primo piano del museo: non focalizza infatti la sua attenzione su un orientamento privilegiato del disegno, ma sulla sua intrinseca versatilità.
Al centro dell’esposizione non è tanto ciò che si manifesta tramite il disegno quanto ciò che emerge e si impone come disegno, amplificando i confini della categoria. A risultare fortemente ridimensionata dunque è la visione tradizionale della rappresentazione grafica, come qualcosa di preparatorio di un progetto: qui al contrario il disegno non sta al posto di nient’altro che di se stesso. Le opere esposte evocano più il gesto del tracciare che la figura tracciata, concentrandosi volontariamente sulla dimensione dinamica e evocativa dell’atto del disegnare.
In mostra differenti media (fotografia, scultura, ricamo) che propongono una concezione “allargata” di disegno, rimandando all’idea di skiagraphia o photographia (scrittura d’ombra o di luce) che Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia pone all’origine mitica della disciplina. Nel racconto pliniano il disegno nasce da un’immagine sostitutiva; non bisogna dimenticare che Butade, figlia di un vasaio di Corinto, non ritrae “dal vero” il proprio modello, ma fissa i contorni della sua ombra portata. “Il suo segno circoscrive così una presenza indebolita e fantasmatica, una quasi-assenza”, spiega Cincinelli.
Nascono così i giardini ‘stagionali’ di Massimo Bartolini, le sinopie ‘postume’ di Antonio Catelani, l’affiorare delle figure nel gesto formante delle terrecotte di Emanuele Becheri, le duplicazioni evocanti un cortocircuito tra ciò che è scomparso e ciò che non smette di riaffiorare di Andrea Santarlasci; le infinite, minute segnature delle pagine marmoree di Massimiliano Turco tracciati di un divenire, che mostra il senso di una ripetizione mutante. E ancora le sculture incorporanti il disegno della propria genesi materiale di Daniela De Lorenzo, gli autoritratti tracciati senza mai posare lo sguardo sul foglio di Chiara Camoni, le presentazioni extra-rappresentative dei Senza titolo (Chiasmi) e delle Prosopopee di Carlo Guaita, l’Atlas di Margherita Moscardini che, tramite un inedito display performativo, mostra moltitudini aggregate in uno spazio pubblico da cui sono sottratte le architetture. Infine le fotografie in bianco e nero di Paolo Meoni e Giulia Cenci, sorta di disegni istantanei che nella loro platitude restituiscono l’astratto ritmo interno di uno scenario naturale o svolgono il ruolo di annotazioni e schizzi preparatori evocanti opere a venire. La mostra parla a più voci, non vuole infatti modellare una prospettiva dello sguardo, ma modulare un percorso, disegnare uno spazio di transito, capace di suggerire la rilettura spiazzante di categorie precostituite, per condurre in primo piano, oltre al verbo essere delle singole produzioni individuali, l’accadere plurale di un evento.
Margherita Moscardini partecipa con Atlas. On the Human Condition. Places and Times., 2016
L’artista propone un momento teorico conclusivo di un discorso che porta avanti da tempo e che muove da queste parole di Arendt: “the Polis, properly speaking, is not the city-state in its physical location; it is the organization of the people as it arises out of acting and speaking together […] action and speech create a space between the participants which can find its proper location almost anywhere and anytime. Space and location are created through plural action.”
Arendt scrive che la città è la gente riunita nel discorso pubblico, e come tale, è un fatto trasponibile quasi ovunque e in ogni momento. L’artista traduce questo assunto in termini plastici attraverso disegni di folle che calzano gli spazi e piccole sculture. La città, dunque, è vista in termini di ambiente costruito dalla moltitudine che si addensa e si disperde nei vuoti urbani: strade, piazze, etc. Quei vuoti progettati per l’aggregazione, la sosta e la viabilità, quando sono riempiti completamente sembrano realizzare il lavoro di chi li ha progettati. Come dice Butler, quando la moltitudine si riunisce per rivendicare lo spazio pubblico, l’ambiente materiale diventa supporto dell’azione e allo stesso tempo è riconfigurato dall’azione.
La città in termini di patrimonio, di costruito, non resiste alla distruzione, ai bombardamenti, alla catastrofe naturale, neanche al tempo.
LINK http://www.museonovecento.it/mostre/il-disegno-del-disegno/